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Storia del Lupo Buono

Ovvero: Chiara's way

La prima volta che ho visto questo posto, Flaviano ora ventenne aveva imparato a malapena a camminare.

Si arrampicava entusiasta sui pietroni sbilenchi che una volta erano state scale, per vedere i conigli e le galline alloggiate nella casa alta diroccata. In un angolo roccioso, dove ora c'è l'osservatorio, Lorenzo  aveva fabbricato con qualche canna e degli stracci uno spaventapasseri molto calabrese: un minaccioso cacciatore silenzioso appostato con tanto di fucile.

Faceva paura anche a me, figurarsi alla volpe che, come avremmo scoperto, aveva la tana in una spaccatura della roccia tra gli olivi.

Le casupole non erano più abitate, ma neppure abbandonate del tutto: servivano da base (comodità dicono da queste parti) per le attività in campagna: nella cucina annerita dal fumo si cucinavano pasti per gli operai che raccoglievano le olive, e poi si lavavano i piatti sbertucciati su una pietra consumata ai piedi dell'olivo centenario.

D'inverno, c'erano appesi i salami, e il fumo sottile usciva dalle fessure tra i coppi.

Nel forno del lupo si faceva il pane, quello acido e biscottato che non si può mangiare senza bagnarlo.

Già, il lupo, anzi, il Lupo.

Sbucò fuori un pomeriggio da una favola che raccontavo a Flaviano per farlo addormentare, sdraiato sul sedile della vecchia Niva bianca che ci portava in giro per campagne nella nostra ricerca di una casa di cui innamorarci.

Il nostro Lupo era bruttissimo e nero e viveva nella foresta di Roccaforte.

Era un lupo strano, lui, e cacciare e uccidere per sopravvivere proprio non gli andava giù.

E un inverno che nevicava e nevicava e sembrava non dovesse smettere mai, scese giù dall'Aspromonte in cerca di una pizza e di compagnia.

Ma  la gente del paese ne aveva paura, perché non sapeva quanto era buono. E il Lupo vegetariano si sentiva solo.

Costruì dunque il suo forno, nero e spaventoso come lui, e iniziò a cucinare torte e biscotti che col loro profumo attirarono animali e bambini... Così il Lupo ebbe tanti amici e visse cent'anni nella casetta, e forse è ancora in giro e passa di qui ogni tanto.

Flavi si addormentava e coi suoi riccioli biondi sembrava un gesubambino, e le casette di sassi sembravano quelle di un presepe, con tanto di pecore quando Aurelio il pastore passava di là.

Ogni tanto, anno dopo anno, salivamo a San Pantaleo a trovare Lorenzo e Carmela, che ci offivano  "u café" ma non volevano venderci i casolari per nessun motivo.

C'era una pergola cadente di zibibbo davanti alla cucina del lupo, con un "bizzolo" (un gradino) su cui sedersi al fresco e ammirare la valletta bruciata dal sole e lo stupefacente arco di mare con le navi di passaggio.

Era nata anche Matilde nel frattempo, e sotto quella pergola la allattavo cullandola.

Poi una sera ci fermammo a cena, e scoprii che dalla cima della rocca si vedono stelle come solo in montagna sulle Alpi. Una infinità di stelle che sembra di poter toccare allungando una mano. Forse perché manca l'illuminazione stradale, o è merito del vento che spazza continuamente la valletta e fa frusciare gli olivi che diventano argentei.

Ci vollero anni perché potessimo comprare, e altri anni per ricostruire.

Decine di viaggi con l'auto strabordante di masserizie, di carichi di calce naturale perché non volevamo che il cemento rovinasse il colore delle pietre, di cacce al tesoro per trovare una maniglia o un rubinetto "giusti".

Pomeriggi accaldati a montare mobili, a piantare alberi da frutto di varietà antiche ormai scomparse ma così profumate.

I muratori locali, quando gli spiegavo che volevo le camere da letto con i muri originali di pietra a vista, scuotevano la testa: le "armacere", cioè i muri a secco in campagna, ok. Ma in casa? una casa nuova? questa è matta, dicevano in dialetto.

E Luciano sornione confermava: sì sì è pazza bisogna accontentarla! e così ci guadagnammo il nostro soprannome ufficiale, che da queste parti è come essere adottati. Lui è "u pacciu i Melano" e io "la mugghiera du pacciu i Melano".

Ehi, un po' pazzi siamo, è vero. E io sono proprio di Milano.

Ma questa è la nostra ca​sa.

 

 

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